La retribuzione, busta paga e retribuzione sufficiente

La retribuzione, busta paga e retribuzione sufficiente

L’obbligazione retributiva. La retribuzione minima sufficiente.

L’obbligazione retributiva. La c.d. busta paga.

Secondo la definizione generale desumibile dagli artt. 2094 e 2099 c.c., la retribuzione consiste nella prestazione fondamentale cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore. Essa indica sostanzialmente il corrispettivo del lavoro prestato ovvero, detto in altri termini, il complessivo trattamento economico che spetta al lavoratore in virtù del rapporto di lavoro.

La retribuzione è una tipica obbligazione corrispettiva avente come oggetto una somma di denaro (l’ultimo comma dell’art. 2099 c.c. prevede in realtà la possibilità che la prestazione retributiva sia in natura e non pecuniaria, ma l’ipotesi è nei fatti del tutto marginale).

L’adempimento dell’obbligazione retributiva: tempo, luogo e modalità

La retribuzione è, come detto, una tipica obbligazione corrispettiva da ricomprendere nella categoria delle obbligazio-ni pecuniarie. Per ciò che riguarda la corresponsione della retribuzione, il datore di lavoro è sottoposto alle regole ge-nerali degli artt. 1176 e 1182 c.c.. L’art. 2099 c.c. si limita a stabilire le modalità ed i termini e cioè i tempi e le circo-stanze del pagamento, che devono essere desunti dagli usi del luogo dove il lavoro viene eseguito e non del luogo do-ve si trova l’impresa.

Quanto al luogo dell’adempimento, la retribuzione deve essere corrisposta nella sede di lavoro dell’imprenditore, che non è il domicilio del datore, ma il luogo di lavoro, nel quale il lavoratore presta la propria attività. La L. 5-1-1953, n. 4 pone infine l’obbligo al datore di lavoro di consegnare al lavoratore, unitamente alla retribuzione, un prospetto paga (c.d. busta paga) analitico delle diverse voci che compongono la retribuzione, con l’indicazione di tutte le ritenute di legge, fiscali (IRPEF), previdenziali ed assistenziali.

Il termine per la corresponsione della retribuzione, di regola, è stabilito dai contratti collettivi o in mancanza dagli usi. Il diritto al pagamento della retribuzione sorge a lavoro compiuto; è questo il principio della post-numerazione, in forza del quale il pagamento della retribuzione è posticipato rispetto alla erogazione della prestazione lavorativa. I pagamenti, poi, seguono cadenze periodiche stabilite nei contratti: per lo più a mese o a settimana.

L’orario di lavoro come criterio di commisurazione della retribuzione

Nella generalità degli altri contratti la post-numerazione è modalità accidentale attinente al contenuto del contratto ed è demandata all’accordo delle parti. Nel caso del contratto di lavoro, invece, la post-numerazione è un effetto naturale del contratto.

Ed, infatti, secondo l’art. 2099, co. 1°, c.c. la retribuzione va commisurata alla quantità della prestazione di lavoro e tale quantità si determina, direttamente, sulla base del tempo impiegato per la erogazione della forza-lavoro offerta dal prestatore, oppure, indirettamente, sulla base del risultato produttivo ottenuto mediante l’erogazione della stessa forza-lavoro (cottimo).

In entrambi i casi è la quantificazione del tempo lavorato (orario di lavoro, fissato preventivamente o conteggiato a consuntivo) che funge da base per la determinazione della forza-lavoro prestata e della commisurazione della contro-prestazione retributiva: la considerazione che poi il conteggio avvenga in un caso per unità di tempo lavorato (ore, giorni, mesi) e nell’altro (nel caso del cottimo) per (quantità di) grandezze prodotte e quindi in relazione al risultato tecnico-funzionale della prestazione lavorativa, non toglie nulla al rapporto di scambio sussistente tra tempo lavorato e retribuzione.

Vale la pena di notare che la distinzione tra risultato e tempo dell’attività lavorativa è rilevante nel caso del cottimo ai fini non dell’incidenza del rischio dell’utilità del lavoro (e dunque dell’alternativa tra lavoro autonomo o subordinato) bensì del computo della retribuzione:

vale a dire ai fini del quantum e non dell’an del corrispettivo cui è tenuto il datore. In altre parole, dal punto di vista tecnico-funzionale, la nozione di risultato produttivo è la stessa tanto nel lavoro autonomo che nel lavoro subordinato retribuito a cottimo; diversa è, invece, la sua rilevanza come criterio rispettivamente per 1″imputazione del rischio del lavoro e per il calcolo della retribuzione a cottimo (v. infra).

La regola della post-numerazione sottolinea comunque l’importanza dell’orario di lavoro come criterio di determina-zione della durata e quindi della quantità della prestazione lavorativa ed insieme come criterio di commisurazione della obbligazione retributiva.

Retribuzione minima, contratti collettivi e art. 36 Cast.

La natura precettiva dell’art. 36 Cost. – Applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.

Principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico è quello sancito nell’art. 36 Cost. .
La previsione costituzionale dell’art. 36 individua secondo la prevalente dottrina i requisiti essenziali (inderogabili cioè non solo dall’autonomia individuale e collettiva ma anche dal potere legislativo) della retribuzione: tali sono i requisiti della proporzionalità e della sufficienza della retribuzione.

In virtù del carattere della proporzionalità, la retribuzione deve essere determinata secondo un criterio obiettivo di equivalenza alla quantità e qualità del lavoro prestato, tenendo cioè presenti tutti gli elementi di valutazione della pre-stazione (orario di lavoro, tipo di mansioni etc.).

Il requisito della sufficienza impone, invece, una misura minima di livello retributivo idonea, in particolare, ad assicu-rare non solo al lavoratore, ma anche alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa (libera nel senso di salvaguar-dare l’esigenza di non essere oppressi dal bisogno economico; dignitosa nel senso di godere di un tenore di vita decoroso).

In tal modo viene corretto o quanto meno temperato il rigido criterio proporzionalistico che invece è contenuto nello stesso primo comma dell’ari. 36 Cost.: la proporzionalità tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, cioè, deve essere contenuta in ogni caso nei limiti necessari a garantire la sufficienza della retribuzione stessa.

Si può quindi dire che il requisito prevalente è quello della sufficienza – e cioè che la sufficienza costituisce la base minima (non nel senso di minimo vitale, ma di un minimo livello di vita socialmente adeguato) – laddove il requisito della proporzionalità, per quanto ad esso collegato, assuma una posizione logicamente successiva.

Il principio della sufficienza della retribuzione, sancito dall’art. 36 Cost., manifesta tutta la sua importanza nelle applicazioni che la giurisprudenza ne ha fatto. Nel nostro ordinamento, infatti, in assenza di una legislazione determina-trice dei minimi salariali, è stato soprattutto merito della giurisprudenza se si è colmato tale vuoto normativo.
Vediamo come si è sviluppata quest’attività giurisprudenziale.

L’art. 36 Cost. ha sicuramente un contenuto programmatico vincolante nei confronti del potere legislativo (sotto que-sto profilo l’art. 36 viene in rilievo come norma c.d. direttiva): in pratica, in virtù dell’art. 36, l’attuazione del princi-pio della retribuzione minima sufficiente è demandata all’intervento del legislatore, il quale viene chiamato a stabilire, attraverso provvedimenti del Governo o attraverso appositi meccanismi procedurali di tipo amministrativo, la retribuzione minima sufficiente.

Ma, accanto alla funzione direttiva dell’art. 36 co. 1 Cost., la giurisprudenza ha individuato una funzione c.d. pre-cettiva del principio della retribuzione sufficiente, vale a dire una connotazione ed un’importanza del principio citato in termini tali da essere addirittura ritenuto direttamente vincolante nei confronti dell’autonomia privata.

Secondo la giurisprudenza, in particolare, è da ritenere conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza la retribuzione equivalente a quella prevista dai contratti collettivi applicabili alla categoria o al settore produttivo cui appartiene il prestatore di lavoro; la stessa giurisprudenza non si è peraltro sottratta all’applicazione dell’art. 36 Cost. pure in assenza di un contratto collettivo della categoria di appartenenza del prestatore di lavoro, ed ha fatto riferimen-to al contratto collettivo previsto per categorie affini.

Sicché i giudici, in assenza di pattuizione della retribuzione tra le parti, oppure, nell’ipotesi in cui essa sia stata pattui-ta in misura insufficiente, hanno ritenuto necessario, in virtù dell’art. 36 Cost., che il datore di lavoro erogasse al pre-statore un emolumento (stipendio o salario) equivalente alla retribuzione minima prevista nei contratti collettivi appli-cabili alla categoria o al settore produttivo a cui appartiene il prestatore di lavoro, ritenendo che tali parametri integra-no quel requisito della “sufficienza” voluto dall’art. 36 Cost. .

Il meccanismo giuridico, attraverso il quale la giurisprudenza determina la retribuzione sufficiente dovuta al prestato-re di lavoro, è differente a seconda che le parti non abbiano pattuito la retribuzione oppure l’abbiano pattuita in entità inferiore alla minima sufficiente.

In ordine alla prima ipotesi, allorquando per determinare la retribuzione le parti non abbiano fatto riferimento ne ad una propria pattuizione, ne a contratti collettivi applicabili, la determinazione giudiziale della retribuzione è manife-stazione della funzione integratrice del contratto esercitata dal giudice ai sensi dell’alt. 2099 c.c. il quale prevede che “in mancanza di accordo tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice, tenuto conto, ove occorra, del parere delle associazioni professionali”.

Tale disposizione non deroga alle regole generali: infatti, in base ad essa il contratto, che ha forza di legge tra le parti (art. 1372 co. 1 c.c.), le obbliga non solo a quanto da esse voluto espressamente, ma anche a tutte le conseguenze pre-viste dalla legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità: nel caso di specie sarà il giudice a fissare in concreto la misura della retribuzione che è elemento essenziale per la validità del contratto di lavoro.

La disposizione del secondo comma dell’art. 2099 costituisce invece, una vera e propria deroga al regime generale delle nullità. Infatti, a norma dell’art. 1418 c.c., il contratto è nullo se manca la determinazione dell’oggetto. Sicché la mancata pattuizione della retribuzione dovrebbe generare l’invalidità dell’intero contratto. Orbene, il secondo comma dell’art. 2099, prevedendo il potere del giudice di colmare la lacuna, esclude esplicitamente il difetto di determinazio-ne della retribuzione come causa di nullità del negozio.

Diverso è il meccanismo giuridico operante allorquando la retribuzione sia stata pattuita dalle parti, ma in misura inferiore al minimo sufficiente. In tal caso non può operarsi alcun richiamo diretto al secondo comma dell’art. 2099, in quanto la clausola retributiva non manca e quindi nessuna lacuna negoziale deve essere colmata. In tale ipotesi, se-condo l’interpretazione giurisprudenziale, la clausola retributiva è nulla in quanto contraria a norma imperativa (art. 36 Cost.).

Ma tale vizio non genera la nullità totale o parziale dell’intero contratto in quanto, secondo il disposto del secondo comma dell’alt. 1419 c.c., “la nullità di singole clausole non comporta la nullità del contratto, quando le

clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative”. Nel caso in questione la retribuzione non pattuita (quin-di nulla) è sostituita di diritto dalla retribuzione minima legale prevista dall’art. 36 Cost., che ha appunto il carattere di norma precettiva del corrispettivo minimo del lavoro.
Attraverso tale interpretazione, la giurisprudenza ha realizzato una forma parziale ed indiretta di estensione erga om-nes degli effetti del contratto collettivo, risolvendosi così il problema del riconoscimento dell’efficacia generale ai contratti collettivi stessi, almeno limitatamente alla loro parte economica.

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